Valter Vannelli, "MARCELLO PIACENTINI E LA GRANDE ROMA, il protagonista, i progetti, gli scritti. Saggi 1981-2009 _ 2010



LA GRANDE ROMA
dibattiti, progetti, protagonisti dell'architettura: Marcello Piacentini
di
Valter Vannelli
2005



V. Vannelli, "MARCELLO PIACENTINI E LA GRANDE ROMA, il protagonista, i progetti, gli scritti"
Libro a copertina morbida / e-book, maggio 2010 [184 pagine, 104 riproduzioni di documenti d'archivio].

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ACS, PCM, b.930


Nella colonna di centro, dell'autore:

- prima parte del testo per le "Giornate di Studio sull'architettura delle città italiane", Accademia Nazionale di San Luca, Roma 21-24 febbraio 2001, pubblicato in:
_ "L'ARCHITETTURA NELLE CITTA' ITALIANE DEL XX SECOLO - Dagli anni Venti agli anni Ottanta", a cura di V.F.Pardo, Jaca Book, Milano 2003, pp. 163 - 174.
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      Il sentimento e il linguaggio dell’architettura

     L’istanza culturale e l’interpretazione dell’architettura, che tra il 1922 e le grandi opere per il centro storico caratterizzano in Roma l’esperienza operativa del regime nel suo primo decennio e all’inizio del successivo, hanno riscontri puntuali negli scritti di Marcello Piacentini. Dal loro confronto con l’attività dell’architetto emerge il ruolo svolto del personaggio, dal primo dopoguerra a dopo il ventennio fascista; e si rileva l’influenza da lui esercitata quale protagonista e senza soluzioni di continuità sulle vicende di Roma, dalla definizione del disegno della città alla direzione delle grandi opere pubbliche, dalla progettazione edilizia alla fondazione e gestione della prima Facoltà di Architettura italiana. Raffronti e vicende lo rendono infine rappresentativo dell’attività di più categorie professionali, ed emblematico della funzione che programmi ed opere esprimono in Roma quale capitale.
     Questo studio esamina alcuni scritti dell’autore in rapporto alla sua attività disciplinare. Il fine è di intendere come le dottrine ne sostengano le opere e come queste verifichino la bontà degli assunti. La consistenza di riscontri anche noti semplifica lo svolgimento del programma. Varrà quindi individuare e segnalare, nel planetario della produzione e tra gli intendimenti e le realizzazioni dell’architetto, l’alternanza tra coerenze puntuali e contraddizioni eclatanti. Varrà poi contrassegnare le intersezioni che caratterizzano i passaggi tra le prime e le altre, anticipando che lo studio incentra su Piacentini l’interesse che spetta ad una generazione di professionisti dell’architettura, così come uno studio analogo su Mussolini non sarebbe diverso da uno spaccato sulla gente e sulla cultura di quel regime. I limiti di una relazione non danno spazio a letture analitiche; tuttavia, anche un’osservazione non ravvicinata di testi ed atti consente di saggiare riscontri significativi. Promosso dai problemi del disegno e dell’immagine della città, lo studio è dedicato al sentimento ed al linguaggio dell’architettura. In quest’ambito, letture di testi e progetti convergono sul ruolo svolto dal programma di Marcello Piacentini per La Grande Roma, del 1925, nel passaggio infine definitivo dalla cultura liberale a quella del nuovo regime.
     Si disegna un profilo dell’autore, e si danno cenni a pagine di cronaca e ad atti che focalizzano aspetti meno noti di questo protagonista della cultura romana e nazionale. Ambizioni e ricerche di consensi, del personaggio e dell’ambiente professionale romano, così come del regime in rapporto al quale quei sentimenti e intendimenti si esplicano, in questa sede sono presi in considerazione sia in quanto dati etici del programma o del problema che li promuove, sia in quanto espressivi di valori e principi del contesto nel quale si riflettono e sul quale sempre più incidono. In breve, sentimenti e volontà dichiarate assumono le forme di giudizio dalle quali dipendono atteggiamenti e scelte operative. Dalle prime discendono le altre; e tutte, dalle intenzioni ai comportamenti, assumono il valore di matrici strutturali necessarie, di visioni logiche ed epocali sempre meno discutibili, che s’ imprimono nel disegno e nell’immagine della città.
     Il dibattito tra modernismo e classicismo, tra città e campagna, tra tecnologia e umanesimo coinvolge culture, ruoli e interessi anche nazionali. Milano e Roma ne restano i maggiori centri d’espressione, in un rapporto a volte antitetico, la cui tradizione precede l’Unità. Indotto nella capitale sui binari del pregiudizio, il confronto sfocia nella contrapposizione ideologica; un traguardo politico, oltre il quale il silenzio o la subordinazione attendono i perdenti. Come sempre, più del solito, l’ordine istituzionale subordina la libertà di pensiero all’azione; l’analisi critica e la riflessione culturale sono incalzate dalle situazioni di fatto.
     Con l’aspetto della necessità e dell’ineluttabilità, queste forme precostituite del giudizio inducono a riscoprire programmi e progetti anche collegialmente criticati e accantonati; ed a rivalutare criteri e metodi più volte dichiarati inadeguati al rinnovamento, in Roma, dell’architettura; come quelli fatti risorgere in nome dell’arte per affrontare i problemi del disegno della città e della sua architettura con nuove assialità, simmetrie e centralità di visioni prospettiche. Ripensamenti e conversioni, di per se già lesivi dell’integrità intellettuale, riflettono sulla ricerca linguistica effetti pretestuosi e appariscenti, che segni reiterati e altisonanti hanno lo scopo di compensare dilatando gli spazi urbani, contrapponendo le masse murarie, enfatizzando fino al limite il contrasto tra gli elementi formali.
     La monumentalità dei risultati tende a coprire la parzialità dei contenuti; ma per quanto soffocata da valori retorici, inventati anche senza persuasione e adottati per calcolo, l’esperienza linguistica pone presto in luce - ed in modo solare - l’assonanza tra gli enunciati dottrinali e ideologi del regime ed il senso declamatorio delle immagini proposte o realizzate. Con gli anni, dopo il recupero di progetti e metodi del primo dopoguerra, con l’isolamento del Campidoglio e le sistemazioni di piazza Venezia, e poi con la dilatazione dei programmi e la riduzione degli enunciati linguistici ai soli essenziali – una modernità modellata su una tradizione reinventata in modo ideologico per una lettura di massa - la concordanza tra regime ed architettura diverrà, specie dopo il 1930, sempre più stretta, come nella cinematografia e nelle altre arti visive. Le coincidenze strutturali e tipologiche tra il linguaggio politico ed il linguaggio architettonico diverranno frequenti e persuasive per stentorietà, enfasi, declamazione, reiterazione, sottolineature, cadenze marziali e – comune carattere tipico - retorica e tuttavia efficace potenza espressiva. Lo diverranno al punto che parlare di architettura fascista diverrà e sarà infine cosa legittima, specie in Roma, per i caratteri assunti dalla nuova immagine urbana.
     Problema analogo, con senso inverso, si porrà per l’epoca successiva, quella democratica; la quale, fidando nell’autodeterminazione antropologica ed empirica dello spazio, dopo oltre mezzo secolo si ritrova con un territorio tanto privo d’immagine da essere, anche al confronto con l’altra, povero di qualità e indeterminato nell’identità. Una contraddizione apparente, questa, che non riflette una contrapposizione tra opposti regimi, quanto gli effetti davvero epocali della trasposizione di società di massa a lungo poco istruite ed ancor meno industrializzate (povere quindi sia di spirito civile sia di mezzi economici) tra sistemi politici fondati – il secondo anche dopo il 1989 - su consensi acritici e sul monopolio della cultura.

    L’eredità liberale

     Già dai primi anni ‘20, sentimenti ed intendimenti di professori di disegno architettonico, d’ingegneri ed amministratori precedono le attese del regime, tanto che non pochi programmi e progetti fondamentali per la città, come quello per isolare il Campidoglio, sono studiati e discussi più volte prima dell’avvento del fascismo. Programmi, progetti e realizzazioni di quegli anni testimoniano quindi l’iniziale e sostanziale indipendenza di scelte linguistiche e di intenzioni formali dagli imperativi ideologici, ancora indefiniti, del potere politico. Nel suo primo decennio, infatti, tra il 1922 e la ristrutturazione dell’economia nazionale successiva alla crisi del 1929, la preoccupazione maggiore del regime è di ricostruire lo Stato, di assimilarlo al partito e di acquisire il consenso di ceti e classi piccolo borghesi e popolari. In breve, in quegli anni il regime non è ancora in grado di incanalare, come poi avverrà, tutta la società civile nei più rigorosi binari delle strutture corporative e di inquadrarla, anche per il sostegno morale indotto dal Concordato del 1929 con la Santa Sede, nei più ambiziosi programmi degli anni ’30.
     Nel 1920 Piacentini concorda con Rodolfo Lanciani, Corrado Ricci, Gustavo Giovanni, G. Battista Giovanale, Munoz ed altri studiosi su critiche e rilievi mossi ai metodi progettuali del primo periodo di gestione architettonica della città, quelli della sperimentazione ottocentesca. Da allora si riconosce che quei metodi sono stati "mal coordinati" per disegno e funzione, e che sono stati condotti senza "nessuna preoccupazione dei resti antichi". Le proposte di Tolomei, Ricci e di altri sono viste come "innovative" e, a tutela dell’ambiente, si subordinano le opere ai rilevamenti (come dire: all’analisi storica). Criteri, metodi e strumenti sono vincolati all’informazione ed alle competenze disciplinari. Per piazza Venezia ed il Campidoglio si parla di "condizioni artistiche riguardanti l’ambiente di masse, di linee e di colore", e di "rapporti coi gruppi edilizi e monumentali". I concetti tradizionali di "asse", "simmetria" e "specularità" sono ritenuti sempre meno sufficienti per risolvere la composizione di piazze e fondali. Si ammette che occorre rivedere i principi della composizione; e che per trovare nuove regolarità ordinatrici vale dare maggiore rilievo ad una concezione euritmica dell’ambiente, da fondare su rapporti ed equilibri armonici non dimensionali, dettati dalla "sensibilità". Si propone di integrare questi nuovi criteri con altri, del tipo di "rispondenza" e di "analogia di ambiente" ai quali far corrispondere composizioni più articolate. Si fa l’ipotesi del verde monumentale (G.B. Giovenale), come elemento compositivo in grado di mediare e risolvere le maggiori discordanze urbane tra gli edifici e gli spazi esistenti intorno ai monumenti. Ritenendo le indicazioni non sufficienti, o il metodo non ben definito, si aggiungono infine altri dati. "I nuovi edifici dovranno, per non sembrare invadenti ed inarmonici, seguire opportune norme architettoniche, di non forti altezze, di aspetto non rigidamente geometrico, di sobrietà nelle forme, nella decorazione e nel colore". La gerarchia dei valori tradizionali sembra uscirne sgretolata. La rottura tuttavia è parziale e riguarda per ora gli elementi della composizione assai più dei riferimenti formali e stilistici. I nuovi criteri progettuali entrano solo marginalmente nel merito dei rapporti tra tipologia e ambiente. Gli orientamenti linguistici restano sottintesi e del sorgente razionalismo non si fa parola. Il rapporto dell’architettura con la tradizione e la sua storia è anzi in più modi confermato. Infine, nonostante la centralità di Roma nel dibattito nazionale sull’architettura, l’interesse dell’analisi e delle proposte non fuoriesce dalle citazioni dovute ai problemi dettati dalle sistemazioni per la capitale. Siamo agli sgoccioli dell’era liberale, in un clima culturale tra i meno vitali; tuttavia, le analisi ed i metodi proposti da protagonisti degli anni a venire, come Giovannoni e Piacentini, si riveleranno fondamentali per il disegno e l’immagine della città e per la definizione dell’architettura nazionale del ventennio fascista, ormai alle porte.
     Le indicazioni di criteri, metodi ed immagini rispondono in modo puntuale alle necessità del dopoguerra ed alla ripresa delle opere pubbliche, di quelle del piano del 1909 avviate per l’Esposizione del 1911, e di quelle rimandate a causa della Grande Guerra del 1914 - 1918. Le indicazioni risentono di problemi specifici di Roma, dalle sistemazioni per piazza Venezia all’isolamento del Campidoglio, dalle opere rallentate da decenni e accantonate per la guerra, a quelle indotte dagli errori compiuti nella prima fase di costruzione della capitale.
     Anche se non citate dalla Relazione del 1920, nelle proposte di metodo si riconoscono informazioni derivate da esperienze recenti, europee e nazionali, come pure cautele e reazioni in merito. Sulle "forme nude e modernissime" dei Raimondo d’Aronco, Gaetano Moretti e Giuseppe Sommaruga, prevalgono i riferimenti locali, da quelli prudenti dei Cultori dell’Architettura a quelli sperimentali di Giulio Magni. Altre convinzioni e disposizioni d’animo, altri giudizi di merito di M. Piacentini stanno per prendere forma e sono nel frattempo oggetto d’esperienza diretta, nell’attesa di una formulazione critica. Vale ricordare quelli riscontrabili nella relazione ai volumi per La Grande Roma del 1925; e merita anticipare al riguardo alcuni giudizi formulati in Architettura d’Oggi, che apparirà nel 1930. Si tratta di prese di posizione, concetti, decisioni e sentenze sul linguaggio dell’architettura nel mondo ed in Italia, che non poche circostanze (a cominciare dalla bibliografia del testo del 1930) abilitano a ritenere come opinioni maturate da Piacentini nel tempo e, dato il carattere e il temperamento estroverso e recettivo dell’autore, messe a confronto da anni se non metabolizzate dall’ambiente culturale anche romano. Nella relazione della Commissione si riconoscono difatti elementi critici, suggerimenti e immagini che più tardi Piacentini riprenderà negli scritti citati, ed in altri.
     Nelle relazioni del 1920 e del 1925, e nel libro del 1930, s’intravedono metodi, contenuti e forme derivati dal bisogno di sobrietà, sintesi e castigatezza; trasformazioni che Piacentini riconoscerà nelle innovazioni neo classiche di fine ‘800, (in Garnier in Francia, al Wallot in Germania, al Sacconi in Italia), ove la ‘proporzione ampia’ e il respiro di ogni pezzo cominciano ad assumere un ruolo nella composizione generale. Alle colonne gigantesche, ai timpani, ai festoni, alle cartellette succedono - osserva, - ‘piani nudi, ritmi inventati, sagome fantasiose’. Per Piacentini, le degenerazioni floreali della Secessione viennese e del liberty sono – lo scriverà nel 1930 – ‘una malattia’ che si contrappone al ‘movimento modernista’ e che forse lo arrestano. Ma intanto le superfici hanno cominciato a spogliarsi e, come in Francia, sono apparsi i bow-windows estesi per tutta una facciata e le ‘ondulosità dei muri’ (Plumet). In Italia, - rileva - Raimondo d’Aronco ‘fu il primo a gridare’. Nella sua analisi, Piacentini evita di parlare di rivoluzione; ma il tono con il quale in Architettura d’Oggi, e già prima nei volumi per La Grande Roma, del 1925, relaziona il fenomeno dell’inurbamento e dei bisogni di massa alle trasformazioni tecnologiche, ai nuovi materiali ed all’economia, ed il modo con il quale, dopo "i 10 anni perduti … si vuole creare definitivamente la nuova architettura" partecipano della sua propensione, sia pure tardiva e condizionata, per il ‘movimento modernista’.
     Uomo di cultura, consapevole della centralità del suo ruolo nell’architettura della capitale, non può sfuggirgli l’interesse e l’attrazione di un movimento internazionale tanto innovativo e sperimentale, nel quale trovare soddisfazioni ed immagine. Ma oltre alle remore originate da matrici familiari e personali geneticamente classicheggianti, sa di dover mettere in conto le contrapposizioni inevitabili ed inconciliabili tra una rivoluzione culturale, dialettica ed aperta, interna al movimento internazionale sull’architettura, ed una rivoluzione politica ed ideologica fondata su una dittatura quale quella fascista. Realista, sensibile alle opportunità, è in grado di valutare e di decidere. Diversamente da altre, la sua è una scelta culturale e politica infine determinata e finalizzata.
     Con il programma per La Grande Roma, partecipa infine al regime per esserne protagonista. Allo scopo, sa di dover mediare distinguendo da architetto tra immagini e contenuti, tra ruoli della capitale e ruoli urbani, tra istanze innovative e resistenze conservatrici. E comprende che in quest’opera di mediazione professionale tra il nuovo ed il vecchio, tra programmi pubblici e disegni privati, tra il partito e gli stessi vertici del regime, nella realtà pur sempre variegata dei poteri, tra gli uomini e le situazioni con i quali anche il totalitarismo si deve confrontare, anch’egli può trovare spazio per un ruolo personale nella gestione dell’architettura, in particolare di Roma; uno spazio in grado di ripagarlo della perdita d’immagine che gli deriva dalla mancata partecipazione o da un confronto meno condizionato con il Movimento internazionale. Duttile sui contenuti, abile nei metodi, tradizionalmente solido sugli aspetti strutturali e tipologici dell’architettura, del disegno e dell’immagine della città, egli si appresta quindi già dai primi anni ’20, quando opportuno, anche ad un‘opera di contraffazione di ciò che ambisce in ciò che l’ambiente politico e antropologico gli consente. In ciò è favorito dall’autorità e dall’autorevolezza che gli sono riconosciute; ma è intuibile quanto si senta condizionato e danneggiato dalla contrapposizione a volte trasparente tra l’architettura professata e quella, nel tempo sempre più incerta, di fatto mancata. Lo spazio dato più tardi, negli anni ’30, a colleghi giovani nella progettazione di alcuni edifici per la Città Universitaria, ed altri esempi del genere motivati da opportunità, mediazioni e trasformismi di facciata (anche anagrammatici come quello tra MIAR e RAMI), al dunque mostrano, se non dimostrano, le sue simpatie per alcune manifestazioni del Movimento moderno; simpatie e nascoste parziali adesioni o condivisioni, anche tardive, nei confronti di ricerche formali alle quali come regista delle grandi opere del regime sarebbe inopportuno partecipare in modo diretto, ma che, come mediatore tollerante, è in grado di contrabbandare in quanto di quelle esigenze innovative in modo dialettico si sente tuttavia ancora partecipe.

    Etica dei contenuti nel linguaggio del regime

     L’idea di una scuola non neutrale che curi gli interessi nazionali e l’orientamento classicista in architettura, che nei primi passi della facoltà di Architettura e nella fondazione del liceo artistico di Roma accomunano Gentile e Giovannoni, preludono ai disegni di Mussolini per una architettura che testimoni nel tempo lo spirito del regime. Con il cedimento anche ufficiale dello Stato liberale e l’inizio della dittatura propositi e disegni acquisiscono la forma di un programma, che dal 1925 è scandito con ritmi e toni incalzanti sempre più imperativi. Dal gennaio di quell’anno, la questione dello stile nazionale assume infine priorità politica ed è posta al servizio della volontà di potenza e della grandezza della nazione. La questione, così com’è di sostegno all’impegno ideologico del nuovo ministro Fedele di ‘fascistizzare la scuola’, in modo ...



[ da: Valter Vannelli, "LA GRANDE ROMA. Dibattiti, progetti, protagonisti dell'architettura: Marcello Piacentini" - contributo alle "Giornate di Studio sull'architettura delle città italiane", Accademia Nazionale di San Luca, Roma 21-24 febbraio 2001, pubblicato in: _ "L'ARCHITETTURA NELLE CITTA' ITALIANE DEL XX SECOLO - Dagli anni Venti agli anni Ottanta", a cura di V.F.Pardo, Jaca Book, Milano 2003, pp. 163 - 174. ]

Vedi  Libri e saggi su Roma



- Economia dell'architettura in Roma liberale, 1979
- Economia dell'architettura in Roma fascista, 1981
- Roma, Architettura / La città tra memoria e progetto, 1998
- Roma, Architettura / Da città dei papi a capitale d'Italia, 2001



Saggi, documenti d'archivio, immagini dal vero, letture, analisi di morfologia urbana

Roma, 2005/'07


1 _ "Nuovo Centro Cittadino", (da La Grande Roma, 1925
ACS, PCM, 1926, dal 7.1.3 al 7.1.4 e 7/2).


2 _ "Pianta dimostrativa della Grande Roma", (ibidem)


3 _ "Veduta a volo d'uccello del nuovo quartiere", (ibidem)


4 _ "Veduta delle Terme diocleziane - Nuova piazza della stazione - Nuovo teatro dell'Opera", (ibidem)


5 _ Il piano "La Burbera", (Archivio del Centro Studi per la Storia dell'Architettura, Cat. Giovannoni, c.2.93).


6 _ Vincenzo Fasolo, "Studio per il tracciato di una nuova arteria tra via Cavour ed il Colosseo", (Coll. F.Fasolo, in La Capitale a Roma, Città e arredo urbano, 1991, p.95).


7 _ Vincenzo Fasolo, (ibidem).


8 _ "Programma Urbanistico di Roma, Agosto 1929, VII", (ACS, PCM, 7/2, b.186


9 _ "GUR, Gruppo Urbanisti Romani", Schema del Piano Regionale di Roma", 1927, (ACS, PCM, 1937-39, 7/1-3)



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vv@valtervannelli.it

V V / Roma, 15 marzo 2005 _ agg. 1.1.2009 / 27.5.2010