13 x 21, pagine 196
Narrativa ISBN 88-88947-54-X
RUBBETTINO
IRIDE Edizioni
La FELTRINELLI
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1. Millenovecentoquarantasei
(delle chimere e del realismo)
La guerra era davvero finita
A un anno dalla fine di un conflitto mondiale, dalle sue crudeltà, paure e sofferenze, e dalle speranze e delusioni del dopo, le ferite più profonde erano quelle della pace. Anche per Luca. Lui, a maggio, aveva compiuto quindici anni. Non era più un ragazzo. Dopo i collegi, i traslochi e gli sfollamenti con la madre e il fratello, c’era stata la guerra vissuta da vicino; quella tra gli alleati bloccati nella piana lungo l’Arno e i tedeschi trincerati sulla linea gotica; e l’altra, quella civile, senza un fronte e senza tregua, tra fascisti e antifascisti. Il terrore, la violenza e l’egoismo anche vigliacco del prossimo ne avevano fatto un giovane consapevole; un giovane anche sicuro di sé, che non faceva a meno di sognare. Come tanti della sua età, maneggiava ordigni e residuati abbandonati nei fossi, obici, polvere da sparo e altro. E non aveva difficoltà a interloquire con i grandi; ma parlare con una ragazza lo metteva in soggezione, e un turbinio d’immagini lo confondeva, distraendolo da ciò che faceva o diceva. Vedeva ed era distratto. Pensava e intanto immaginava. Da qualche tempo, e non solo di giorno, avvertiva turbamenti e scombussolamenti tanto lucidi da esserne cosciente anche nel sonno. Erano il segno che stava crescendo e cambiando, nel fisico e nella mente; e che, come tutto intorno a lui, doveva aspettare.
Sperduto nella folla accalcata di traverso alla lunga piazza del centro, Luca aveva ascoltato Nenni e altri candidati alle elezioni, venuti qua, si diceva, non solo da Pistoia e Firenze, ma anche da Roma. Di quelle cose non capiva più di tanto, ma n’era partecipe, ché bene o male si trattava del suo presente, e ancor più del suo futuro.
C’era, anche in lui, il desiderio di buttarsi alle spalle le paure e i tormenti della guerra, il terrore dei rastrellamenti, l’orrore delle rappresaglie e dei tanti appesi ad un filo di ferro, padri e figli, non era un anno, agli alberi del viale lungo il fiume; e l’incubo dei bombardamenti e delle corse ai rifugi, nelle notti cupe illuminate dai bengala e dai lampi di quel fronte dell’Appennino che sembrava non cedere mai.
In quelle stagioni già trascorse dall’aprile 1945 era cambiato tutto. La guerra era davvero finita, e questo era l’essenziale. Si stentava a crederci. Un rombo sordo, un colpo secco, una voce concitata, specie di notte, bastava per trasalire e spiare nel buio dalla finestra; come se ancora ci fossero il coprifuoco e l’oscuramento, e magari la guerra si fosse mai potuta vedere da lì; o per uscire e sapere. Per chi poteva, il volume alto della radio sui notiziari serviva anche a questo, a rassicurarsi che era proprio così, era finita. E tuttavia questa certezza non bastava ad allentare l’angoscia e le sofferenze dei tanti, per i quali il bisogno di fiducia e di speranza, l’una e l’altra legate a un destino comune, restava sospeso all’attesa di una persona, del ritorno a una casa, o anche soltanto a una condizione meno disumana.
C’era quindi un nesso tra quei sentimenti che sapeva comuni, che Luca viveva ogni giorno con la gente, in coda come lui per un pezzo di pane, e i discorsi e comizi che si accendevano ovunque, a ogni angolo e occasione.
A distanza di mesi, la solidarietà sortita contro un nemico comune per liberare e riscattare il paese impegnava le stesse forze nella sua ricostruzione. Così sembrava.
Erano due generazioni, di padri e figli, reduci dai fronti e campi di prigionia della guerra segnata dall’Armistizio e da quella, anche partigiana, di Liberazione. Erano i dispersi sfuggiti a rastrellamenti e rappresaglie, i giovani non più ragazzi, che per libera scelta, o costretti dalle circostanze, si erano dati alla macchia e alla lotta clandestina; e i sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti, alle prigioni di quelli di Salò, alle detenzioni e purghe di paesi nemici e divisi.
C’erano, infine, i mutilati, militari e civili. E i familiari, quelli dei renitenti alla leva fascista e gli altri, degli ostaggi d’ogni età e condizione, catturati, deportati, torturati e uccisi da milizie, brigate e masnade d’ogni risma.
Tra le speranze degli uni e i timori degli altri, lo si sapeva, lo si diceva, stava nelle attese della gente che, passato il fronte, tornati dalla macchia o discesi dalle montagne, uomini e donne - braccati per mesi da nazisti e repubblichini - si sentissero legittimati dalla lotta e dai morti ammazzati a fare i conti con gli oppressori d’ieri; e con chi, avendo responsabilità pubbliche come monarchici e badogliani, a suo tempo non aveva preso partito contro i tedeschi.
continua
da: 1946 E DINTORNI, Immagini della memoria
Iride-Rubbettino, settembre 2006
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L'architettura è il luogo della materia e dello spirito dove terra e cielo si toccano. In
questo sta il suo contributo all'esistenza.
Architettura: un frammento significante del tempo e dello spazio; un segno dell'intelligenza
nell'immensità e nell'eternità; una creazione autentica della psiche, la cui forma e senso trascendono la natura.
E' il modo con il quale il sentimento della vita e la coscienza dell'identità liberano l'imperativo umano della
creazione al limite tra le funzioni della materia e l'autonomia numinosa della forma.
La psiche ha la capacità di immaginare e sentire oltre i limiti del tempo e dello spazio, in
una contemplazione e rappresentazione di sé che non procede e non muta secondo le logiche della coscienza; si ché non
consuma né tempo né spazio, e quindi ne prescinde.
Proiezione di questo anelito all'identità ed autenticità, ed alla sopravvivenza di sé,
l'architettura ne è un riflesso nella storia.
V V, 1984
Note in margine a letture di C.G.Jung
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