Per rifondare l'Università e abolire gli Ordini professionali
Da: Valter Vannelli, ARCHITETTURA E PSICHE, Introspezione sulle immagini permanenti e sui caratteri fondamentali del progetto. Capitolo IV, 'L’idea di umanità e il progetto', pp. 164-172, Edizioni Kappa, Roma 2008:
Isolamento dell’architettura e scadimento delle professioni
Che l’architettura non sia più un’attività a se stante, cui delegare le specifiche competenze necessarie per la progettazione urbana, il recupero dei centri storici, la tutela del paesaggio e altri accademici riconoscimenti, è dimostrato dalla sua lenta ma progressiva presenza in campi operativi diversi, dalla realizzazione di infrastrutture produttive e territoriali alla gestione e cura di beni culturali.
Non si può tuttavia sottovalutare lo stato generalmente disastroso di città e territori, aggrediti e devastati da un’edilizia squallida e brutale anche quando pianificata e niente affatto economica. Normative insipienti, mancanza o inosservanza di regolamenti, pressioni di monopoli, abusivismi, malversazioni, ignoranza e, non ultimo, un’utenza disinformata, disposta ad accettare standards urbanistici ed edilizi improponibili in altri paesi europei, sono alcune delle ragioni di una situazione nazionale che, anche per la quasi totale assenza di confronti diretti, l’opinione pubblica stenta addirittura a riconoscere.
In merito alle nuove opere va comunque rilevato che strutturalisti, impiantisti e operatori specializzati concorrono alla progettazione in modo sempre più esteso e vincolante; e che l’insieme degli apporti di quegli operatori incide su progetti e immagini del territorio più di quanto la carente formazione dell’architetto e la sua inesperienza nella gestione del lavoro di gruppo ne limitino, oltre alle funzioni di leadership, anche quelle di coordinatore o soggetto responsabile della sintesi finale.
Il problema ha origine nella gestione dei concorsi per gli organici dei docenti, nella genericità degli studi, nell’affollamento delle facoltà; non meno, in concause riconducibili a mentalità e costumi, pubblici e privati. Una situazione alla quale non si rimedia con un generico e superficiale imparare a saper di tutto in facoltà tuttofare, o in corsi di laurea con specializzazioni nominali sostenute da piani di studio confusi e pressoché indifferenziati.
Come provvedimento parziale, è quanto meno necessario che gli studi siano funzionali a formazioni non più monoculturali e statiche; e che ciascun operatore sia formato in modo paritetico almeno in due competenze disciplinari, (Architettura ed Economia, Architettura e Psicologia, Architettura e Ingegneria dei trasporti, etc.), in previsione di formazioni più ramificate e tendenzialmente pluridisciplinari, integrate da esperienze formative manageriali, sullo stampo di quelle richieste da due secoli a categorie di burocrati e dirigenti francesi.
Università e professionalità: condizioni e prospettive
Alcune riforme richiedono consensi sopranazionali, finanziamenti e attivazioni graduali, sperimentazioni proiettate negli anni. Altre dipendono solo dal desiderio e dalla volontà politica di fondare istituzioni scientifiche e didattiche di livello davvero universitario, con ruolo e senso europeo. Pertanto, dovrebbero tendere ad abbattere le barriere – di lingua e di usanze – tuttora esistenti; barriere che in paesi come il nostro sono sinonimo d’autarchia culturale, di presunzioni nazionali, d’ignoranza delle lingue e di cattivi costumi.
Allo scopo, alcuni provvedimenti si rivelerebbero innovatori e radicali:
- abolire il valore legale del titolo di studio ed i rispettivi ordini professionali;
- istituire la docenza itinerante e l’insegnamento in altra lingua, oltre quella d’origine;
- ridurre le facoltà statali e incentivare con priorità e stipendi la docenza a tempo pieno.
Il primo provvedimento liberalizzerebbe, senza oneri, studi e professioni. Il secondo richiederebbe ai nuovi docenti l’impegno di insegnare un semestre ogni quattro in università di un diverso paese europeo. A regime, la rotazione scenderebbe a un semestre ogni sei, o meno; ma la selezione meritocratica della docenza dovrebbe essere compiuta da commissioni europee, così come il lavoro didattico e di ricerca di tutti docenti, vecchi e nuovi, dovrebbe essere oggetto di giudizio anche delle facoltà ospitanti. Il terzo provvedimento è motivato dalla proliferazione di Corsi di laurea e di istituti statali replicati in funzione di clientele politiche, con un sperpero di risorse sottratte a docenze responsabili ed a ricerche non nominali (9).
Il lavoro richiede competenze e responsabilità; entrambe hanno caratteri sia individuali sia di gruppo, da attribuire secondo ragione e con pari dignità. Nel lavoro interdisciplinare, la responsabilità individuale si fonda su competenze specifiche, riconosciute da facoltà di discipline diverse. A loro volta, le responsabilità di gruppo devono scaturire dal confronto e dall’integrazione collegiale delle competenze personali, nel rispetto dei giudizi e delle responsabilità individuali.
E’ dunque giusto attendersi, anche da noi, una università ramificata ma più integrata dell’attuale, in grado di attivare la ricerca e il confronto culturale in un ambito aperto e competitivo, quanto meno europeo. Ancora, che alla formazione culturale e civile dei futuri cittadini e professionisti tornino a concorrere scuole medie e licei; con fondamenti umanistici e scientifici; con mentalità aggiornate e giudizi di merito che riconoscano e valorizzino vocazioni, talenti, attitudini, capacità, attitudini e volontà; con programmi, metodi e strumenti rispondenti alle necessità del futuro; e con la consapevolezza, infine, che al centro dei problemi non c’è più l’uomo, o l’umanità, ma ogni forma di vita del pianeta.
Sulla relativa presenza e l’effimera incidenza degli architetti nel progettare e realizzare infrastrutture urbane e territoriali, produttive, dei servizi e dei trasporti, il problema induce a rammentare e riconsiderare brani di storia che il tempo ha allontanato senza renderli inattuali. Su quei progetti e quelle realizzazioni, gli ordini degli studi e le fatiche di docenti e studenti di architettura hanno coperto, fino a tutti gli anni Cinquanta, ambiti disciplinari in parte uguali o simili a quelli delle facoltà di ingegneria. A Roma, alcuni esami, come Scienza delle costruzioni e Cemento armato, li sostenevamo direttamente a San Pietro in Vincoli, in appelli comuni con gli studenti del triennio di ingegneria della facoltà “cugina”; Lingua e Letteratura Straniera si dava a Lettere; altri ancora, classificati come scientifici, li sostenevamo a Valle Giulia, sede della Facoltà di Architettura, con docenti chiamati da facoltà competenti sulle discipline importate (Analisi I° e II°, Meccanica razionale, Topografia ..) (10).
Ebbene, è un dato che con le stesse nozioni di statica grafica, di meccanica razionale, di scienza delle costruzioni e cemento armato, e d’altro, e con le stesse esercitazioni su criteri e ipotesi strutturali in cemento armato e in acciaio, generazioni di ingegneri hanno progettato e progettano da decenni con sonno sereno costruzioni di ogni genere - ponti, stabilimenti industriali, coperture per terminali aeroportuali e ferroviari, tracciati viari, urbani e territoriali, stadi, palazzi, tribune e attrezzature per attività sportive, ricreative, culturali, commerciali, residenziali - in un elenco di micro e macro strutture e costruzioni, ippodromi stalle e scuderie comprese, che ci vorrebbe la penna di Rabelais per inanellarle tutte.
Spesso il loro impatto ambientale è notevole; per la dimensione dei manufatti; per la qualità dei territori; o semplicemente per il decoro proprio di ogni ambiente anche minuscolo di vita. Ebbene, in genere l’aspetto esteriore delle opere rivela il candore dei loro autori; ossia, di laureati o diplomati privi d’ogni elementare istruzione sull’estetica e la sua storia, ma sostenuti da una risibile sicumera sul brutto e sul bello, e da qualche confidenza con Domus e Casabella, o altra rivista illustrata e patinata. Tutto qui.
Riflettere sulla formazione e sull'attività degli architetti non è tuttavia da meno. Dalle origini, le facoltà di Architettura distinguono le materie di studio in scientifiche, umanistiche (poi storiche) ed altre considerate minori e diverse (come se tutte non fossero scientifiche almeno per necessità di metodo). La distinzione consolida gerarchie, atrofie e mentalità corporative che, già prima della scuola, sono di una società per niente aperta, e di concezioni ancor meno pluraliste. Più d’altre professioni, gli architetti hanno motivo di interrogarsi sulla divaricazione tra cultura e mestiere, tra problemi del territorio e politica, e sul da farsi per una società indifferente e sorda, ma pure raggirata e incompresa. E’ un fatto che curriculum di studi disorganici e sfilacciati negli anni, e la precarietà di sbocchi professionali non possono che scoraggiare ogni affermazione di principio, fino a subordinare scelte e ruoli anche ambiti alle reali possibilità di lavoro, o a contingenti rendite di posizione.
Il risultato si legge nel disinteresse per la centralità del progetto d’architettura; centralità della quale anche negli ultimi decenni del ‘900 si è fatto un gran parlare, ma della quale non resta che il suono, vuoto, delle parole. Ironia della sorte, mentre la figura professionale dell’architetto perde ruolo e senso, tra coloro che nelle facoltà e fuori ne sono stati la causa, non manca neppure chi - facendo altro - ne sostenga senza pudore il ruolo professionale, con l’accento sulla priorità del progetto nella sua formazione.
Tra disoccupazione cronica ed emarginazione sociale, dalla fine degli anni Sessanta architetti e laureandi in architettura reagiscono inevitabilmente a entrambe le condizioni come nel costume dei ceti medi urbani di recente formazione; quelli di origine, o quelli ai quali aspirano di appartenere. Disquisiscono sul loro sapere in un recinto stantio e chiuso, con l’animazione stanca ma rumorosa di un dibattito apparente, inessenziale e sterile; un ribadire crucciato di principi sullo spazio e la forma nell’architettura per una società di massa, la cui demagogica inconsistenza anche ideologica vanifica le sia pur limitate occasioni promosse da concorsi e collaborazioni.
Tipologia edilizia, morfologia urbana, criteri organizzativi e strutturali, componenti edilizie, elementi figurativi, e gli stessi metodi e tecniche della rappresentazione, sono considerati – tutti, per un principio neppure maoista perché senza alcun supporto di analisi - sinonimo di vecchi codici da sapere che esistono, ma da conoscere solo se serviranno, un domani, se ci sarà (11). Non a caso, enunciazioni e linguistiche dell’architettura, affermate nei rapporti meno provati con i rispettivi contesti e ruoli d’uso, ne sono il supporto d’ogni giorno.
Il protrarsi, come d’altre professioni liberali e per più generazioni, di preparazioni scadenti, di mentalità disponibili e di lavori precari, non prelude a niente di buono. In modo analogo ad altre crisi, in assenza di lavoro, nella vacanza di contenuti reali da affrontare, gli architetti comunicano e si confrontano con codici parlati, con disegni concepiti come manifesto, con la demagogia presa a modello di comportamento. Salvo poi imbonire i semplici e lusingare chi governa un brandello di potere, determinati a farsi spazio nella corporazione e nel mercato.
In merito ai rapporti tra architetti e ingegneri – e tra facoltà e discipline definite “cugine”, - si è di fronte ad una contrapposizione. Per quanto schematica, questa contrapposizione esprime la genericità delle competenze e dei ruoli determinati per entrambe le categorie professionali.
Competenze e ruoli reciproci, vale ricordare, sono nati sfalsati nel tempo (12), in funzione della formazione e dello sviluppo di società liberali, per attività strettamente finalizzate a dare risposte tipologiche e morfologiche rispondenti ai processi economici, tecnologici e sociali. Si tratta di processi che hanno accompagnato l’inurbamento e l’industrializzazione del mondo contemporaneo; in quanto tali, indirizzati a dare riscontri allora qualificati e responsabili, in una fase in cui alla cultura industriale e alle attività scientifiche particolari, nell’Ottocento non ancora del tutto separate, si è sacrificato con motivazioni etiche e conoscitive infine esili l’unità del pensiero filosofico e della scienza.
In un contesto profondamente mutato quale quello degli ultimi decenni del Novecento, nel quale le attività terziarie e i servizi si rivelano strutture economiche e sociali fondamentali, la cultura postindustriale non può tardare a denunciare i limiti contenutistici ed operativi delle professioni liberali. Le quali, ove siano preservate come sono, e tutelate anche per inerzia nei ruoli tradizionali dai rispettivi Ordini professionali, alcuni ottocenteschi, finirebbero per essere causa di divisione sociale e di segregazione culturale, rimanendone nondimeno anch’esse sacrificate.
E’ fuori luogo, in questa sede, esaminare i caratteri dirompenti insiti in una società che, a tutela di corporazioni e monopoli, persegue con privilegi il mantenimento di situazioni economiche e culturali a condizioni di crescita zero, al costo di vergognosi ed esplosivi squilibri sociali.
La formazione delle professioni, che oggi conosciamo, è servita alle esigenze del mondo moderno che c’è stato; ma è muta e passiva nei confronti delle trasformazioni di questo fine secolo, [e di quello appena iniziato], che non è in grado di progettare ed ha smesso di guidare, soggetta ad economie globali ed a squilibri che - in assenza di politiche, interessi e valori altrettanto condivisi e globali - sono ben altro che la panacea di tutto.
L’economia libera di mercato è affidabile quando prescinde da squilibri tra continenti e popolazioni, e da ceti deboli o indifesi da sfruttare. In ogni caso, presuppone governi capaci, attivi ed equanimi, legittimati dall’impegno di ridistribuire opportunità e risorse, e confermati o meno dalla verifica di elettorati consapevoli e responsabili. Sono condizioni che per lo più non ci sono; che quando ci sono, come in Europa, non soddisfano la generalità delle popolazioni; oppure che, come in Italia, valgono in parte per molte regioni, ma non per quelle meridionali, la cui res publica per aspetti anche fondamentali è gestita quasi solo nominalmente dalle istituzioni, mentre le mafie ne taglieggiano il lavoro e ne controllano ogni attività produttiva.
Per quanto aggiornate e snellite, le professioni liberali di stampo ottocentesco mostrano i limiti delle culture e delle mentalità dalle quali sono derivate; rigide, monodisciplinari, circoscritte in sistemi conclusi e separati, non rispondono infine ai requisiti di flessibiliità e permeabilità che dovrebbero caratterizzare attività più complesse e intricate di quelle già proprie di un passato tanto recente, quanto mentalmente e culturalmente lontano.
Le mansioni economiche e sociali di una società post-industriale, articolata anche sull’economia dei servizi, sia pubblici che privati, richiedono formazioni e abilitazioni professionali non definitive, e aggiornamenti con verifiche non nominalistiche delle competenze e delle responsabilità.
La migliore garanzia per il buon funzionamento della società resta comunque la persona, soggetto di ogni azione creativa e di ogni responsabilità. Vale ricordare che anche le leggi sono una rappresentazione della volontà della persona. Nel coniugare gli interessi delle comunità con le libertà individuali, i diritti con i doveri, è dunque alla coscienza individuale che nel definire i problemi resta il compito di avvicinare culture e attività specifiche a quella che dovrebbe costituire, in un crescendo suadente, l’idea universale di umanità.
Senza presumere di vedere lontano, condivido la convinzione e la previsione che le mutazioni progressive, anche catastrofiche - indotte nel pianeta da ignoranza, supponenza, superficialità ed egoismi d'ogni genere - ci indurranno a stabilire, da sole e presto, condizioni di vita, mentalità e costumi più sobri; e che tali premesse, intraviste e studiate anche da chi s’interessa di ecologia profonda, ci prenderanno si spera per mano per uscire dall’infanzia della nostra umanità.
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Questo capitolo è stato scritto quasi integralmente sette anni prima della caduta del muro di Berlino e delle trasformazioni epocali che dal 1989 hanno motivato un po’ ovunque rivolgimenti politici, economici e sociali anche radicali. Da noi - non emersi del tutto da una visione newtoniana, lontana e statica, del mondo e delle sue cose, mentre intorno tutto è cambiato - quegli eventi non sono andati oltre la cronaca; echi di cose lontane e già dimenticate. Roba da elfi, in un mondo - il nostro – di orchetti.
Dall’ 89, non in questa città tuttora centripeta e doppiamente accentratrice, si discute di più, si comprende meglio, s’attrezza la mente ai cambiamenti.
In Roma, ove la dottrina cattolica ha guidato fino ad ieri le coscienze anche sul quando e come accettare Galileo e Darwin, non si vuole, o non si è in grado di capire che da quegli eventi sono riprese a vivere in Europa, da entrambi i lati delle cadute divisioni, istanze esistenziali e culturali soffocate da decenni; istanze e necessità di portata epocale, che andranno ben oltre le timide e tuttavia necessarie iniziative istituzionali, economiche e finanziarie attivate per avviare l’unità di una parte del continente. Comprese e gestite, le fondamenta di questa unità costituiscono l’occasione storica delle nostre generazioni per recuperare le libertà e la dignità delle quali come paese controriformato abbiamo perso la memoria, che anche i poteri consociativi degli ultimi decenni hanno conculcato, e che tuttavia ci abbisognano innanzi tutto come cittadini.
A che pro’, che cosa, e per chi, altrimenti, potremmo progettare?
Note
9 - Abbattere passività, privilegi e interessi particolari resta il presupposto per la credibilità di ogni possibile riforma. Vale tuttavia non sottovalutare altri atteggiamenti della coscienza, cui risalgono comportamenti non meno irresponsabili. Ne cito due esempi, da documenti selezionati durante una docenza appassionata e sofferta; - con il primo, 29 gennaio 1987, il Rettore dell’Università di Roma richiama l’attenzione, anche dei Docenti, di vigilare sui locali “affinché non venga superato il sovraccarico massimo ammissibile per i solai di calpestio”. (Un buon motivo per bloccare sulla porta un ritardatario con un: Alto là, Lei quanto pesa?); - l’altro, aprile 1997, riguarda una lettera del Preside “a tutti i docenti della Facoltà” in cui si dispone che ”Per gli studenti che non vogliono, o non possono effettuare le revisioni, il docente deve fissare delle particolari procedure … compiere uno sforzo … (oltre, aggiungo io, alle già troppe eccezioni che dal 1968 hanno affossato la scuola).
10 - Per gli studenti, Corsi ed esami fuori sede comportavano disagi; ma agli effetti della serietà degli studi quella prassi era migliore della successiva, fondata su docenti prestati “meno malvolentieri” da altre facoltà, o nominati in casa.
11 - In modo analogo alla grammatica ed alla sintassi della lingua parlata, mentre il degrado di quella scritta è ancora maggiore.
12 - Per il periodo che precede la fondazione della Facoltà di Architettura, si fa riferimento ai Professori di Architettura, diplomati dalla Accademia delle Belle Arti.
Da: Valter Vannelli, ARCHITETTURA E PSICHE, Introspezione sulle immagini permanenti e sui caratteri fondamentali del progetto. Capitolo IV, 'L’idea di umanità e il progetto', pp. 123-130, Edizioni Kappa, Roma 2008.
18 Luglio 2011
Nicola Gratteri, 'La malapianta, conversazione con Antonio Nicaso', Mondadori, 2009:
Un paese, l'Italia, "senza memoria e senza verità". (p. 150)
"Quello che colpisce non è tanto l'inefficienza di certi governanti, ma l'inerzia e l'assoluta mancanza di indignazione della società civile,
che sembra aver paura di svegliarsi da questo torpore. (p. 156)
"Ferdinand Tonnies distingueva la società mitteleuropea da quella mediterranea, definendo la prima una società di diritto, basata su leggi uguali
per tutti (Gesellschaft), e la seconda una società di favori e amicizie, una sorta di comunità di tipo familiare (Gemeinschaft).
La Gesellschaft ha una struttura orizzontale, specifica delle società democratiche di tipo anglosassone, mentre la Gemeinschaft, a struttura verticale,
è fortemente gerarchica.
L'una ha come principi fondanti la libertà e l'uguaglianza, l'altra il legame e l'appartenenza, radicati nella vita familiare.
Chi appartiene alla Gesellschaft è protetto dalla legge, quindi non ha bisogno di ricorrere agli altri per chiedere aiuto e favori.
Nella Gesellschaft la legge è uguale per tutti.
Invece i cittadini della Gemeinschaft mediterranea per ottenere giustizia devono coltivare amicizie: fare favori in cambio di favori.
In Italia abbiamo trasformato i diritti in favori. Il trionfo del clientelismo. (pp. 156-157)
Marzo 2010
Richard J.B. Bosworth, 'L'Italia di Mussolini, 1915-1945', Mondadori, 2009:
"Fu nell'Italia liberale che si cominciarono ad adottare misure ben poco liberali, come la compilazione e l'archiviazione di elenchi di dissidenti
politici, le intercettazioni telefoniche, le condanne preventive al domicilio coatto e al confino. (p. 59)
Marzo 2010
Vito Mancuso, 'Attualità', L'espresso, 29 aprile 2010:
"L'anima cattolica del nostro tempo è divisa. Il problema di fondo è il rapporto tra la fede cristiana e il mondo che ha cominciato a delinearsi a partire
dall'epoca moderna. Bisogna risalire al 17 febbraio 1600. ... è il giorno del rogo di Giordano Bruno, l'inizio ideale della chiusura che ci angustia oggi.
L'inizio del tempo nel quale la Chiesa ha chiuso la porta alle idee nuove. Il Concilio Vaticano II ha invertito la rotta aprendo alle possibilità
introdotte dal progresso politico-sociale e scientifico. Così oggi i cattolici sono divisi tra coloro i quali capiscono che il dato dottrinale è contrario
allo spirito dei tempi, e chiedono ... come ultima voce guida l'esperienza che essi fanno nelle loro vite e coloro i quali, invece, vogliono che siano le
acquisizioni dottrinali accumulate nel secoli a guidare l'azione ...
Ecco: Benedetto XVI è incapace di vedere che l'anima cattolica si compone di queste due dimensioni".
Osservatore laico, ritengo che Benedetto XVI partecipi di entrambe le posizioni, quanto la sua chiesa - come istituzione - ne voglia e possa intendere. (Vannelli)
Aprile 2010
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Libri e saggi su Roma