La guerra era davvero finita
A un anno dalla fine di un conflitto mondiale, dalle sue crudeltà, paure e sofferenze, e dalle speranze e delusioni del dopo, le ferite più profonde erano quelle della pace. Anche per Luca. Lui, a maggio, aveva compiuto quindici anni. Non era più un ragazzo. Dopo i collegi, i traslochi e gli sfollamenti con la madre e il fratello, c’era stata la guerra vissuta da vicino; quella tra gli alleati bloccati nella piana lungo l’Arno e i tedeschi trincerati sulla linea gotica; e l’altra, quella civile, senza un fronte e senza tregua, tra fascisti e antifascisti. Il terrore, la violenza e l’egoismo anche vigliacco del prossimo ne avevano fatto un giovane consapevole; un giovane anche sicuro di sé, che non faceva a meno di sognare. Come tanti della sua età, maneggiava ordigni e residuati abbandonati nei fossi, obici, polvere da sparo e altro. E non aveva difficoltà a interloquire con i grandi; ma parlare con una ragazza lo metteva in soggezione, e un turbinio d’immagini lo confondeva, distraendolo da ciò che faceva o diceva. Vedeva ed era distratto. Pensava e intanto immaginava. Da qualche tempo, e non solo di giorno, avvertiva turbamenti e scombussolamenti tanto lucidi da esserne cosciente anche nel sonno. Erano il segno che stava crescendo e cambiando, nel fisico e nella mente; e che, come tutto intorno a lui, doveva aspettare.
Sperduto nella folla accalcata di traverso alla lunga piazza del centro, Luca aveva ascoltato Nenni e altri candidati alle elezioni, venuti qua, si diceva, non solo da Pistoia e Firenze, ma anche da Roma. Di quelle cose non capiva più di tanto, ma n’era partecipe, ché bene o male si trattava del suo presente, e ancor più del suo futuro.
C’era, anche in lui, il desiderio di buttarsi alle spalle le paure e i tormenti della guerra, il terrore dei rastrellamenti, l’orrore delle rappresaglie e dei tanti appesi ad un filo di ferro, padri e figli, non era un anno, agli alberi del viale lungo il fiume; e l’incubo dei bombardamenti e delle corse ai rifugi, nelle notti cupe illuminate dai bengala e dai lampi di quel fronte dell’Appennino che sembrava non cedere mai.
In quelle stagioni già trascorse dall’aprile 1945 era cambiato tutto. La guerra era davvero finita, e questo era l’essenziale. Si stentava a crederci. Un rombo sordo, un colpo secco, una voce concitata, specie di notte, bastava per trasalire e spiare nel buio dalla finestra; come se ancora ci fossero il coprifuoco e l’oscuramento, e magari la guerra si fosse mai potuta vedere da lì; o per uscire e sapere. Per chi poteva, il volume alto della radio sui notiziari serviva anche a questo, a rassicurarsi che era proprio così, era finita.
|
|
E tuttavia questa certezza non bastava ad allentare l’angoscia e le sofferenze dei tanti, per i quali il bisogno di fiducia e di speranza, l’una e l’altra legate a un destino comune, restava sospeso all’attesa di una persona, del ritorno a una casa, o anche soltanto a una condizione meno disumana.
C’era quindi un nesso tra quei sentimenti che sapeva comuni, che Luca viveva ogni giorno con la gente, in coda come lui per un pezzo di pane, e i discorsi e comizi che si accendevano ovunque, a ogni angolo e occasione.
...
Dalla Liberazione, riprese le pubblicazioni, anche Luca seguiva i titoli sui quotidiani affissi nella bacheca della minuscola rivendita posta di sbieco a piazza Mazzini. Il giornale, di quattro pagine, costava una lira; e lo stanzino del giornalaio era lo stesso che Luca avrebbe ritrovato, uguale, quasi sessant’anni dopo, se possibile più grigio, con la griglia metallica sulla bacheca delle testate, poggiata come allora di sbieco allo stipite della porta, sul selciato.
Da mesi Luca era iscritto alla sezione giovanile socialista, e ne avrebbe conservato la tessera, mai rinnovata né sostituita con altre, con tanto di sovrastampa "Costituente 1946". Gli piacevano quei simboli del lavoro sostenuti da un libro aperto, sul profilo di officine dai camini alti e sottili. C’era, per lui, quello che ci doveva essere, l’essenziale. Un mondo così, senza fronzoli e pellicce, senza gente a bighellonare e a far mostra di sé, come già si tornava a vedere, avrebbe dato dignità a quel piccolo ambiente anche insulso e compiaciuto, dal quale spesso si sentiva circondato.
Luca ci credeva e lo riteneva giusto. Aveva pena per chi stava peggio di lui e s’immedesimava nella gente della quale conosceva da vicino fatiche, travagli e bisogni; o della quale comprendeva le difficoltà e l’indecorosa, immeritata miseria. E poi, la Sinistra non stava bene alla Chiesa; né più e né meno di come - da quando aveva cinque anni e per la Cresima un prete, per inculcargli il senso del peccato, lo aveva terrorizzato - la Chiesa non stava bene a lui.
Tuttavia Luca amava la sua libertà, e ci teneva, per poco che gli desse; se non altro per dire quel che gli pareva. Per questo aveva in uggia ...
da :
Valter Vannelli, "1946 E DINTORNI. Immagini della memoria"
Iride-Rubbettino Editore, settembre 2006
|